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Il compito del romanzo: cinque idee da salvare

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Si è parlato e scritto molto sulla cosiddetta “fine del romanzo”. Da più parti, a volte da parte dei critici e altre volte persino degli autori, il romanzo è apparso un genere superato, surclassato da altre forme di narrazione (il cinema, le sitcom, i videogiochi e così via). Lasciamo qui alcune idee di parere contrario, per non morire di semplificazione.

Godard1. Se uno scrittore s’imbarca nella disperata avventura del romanzo è, forse, per dimostrare che la vita non si riduce ad un fatto “economico”, nel senso ristretto di Dare/Avere, ma piuttosto per spingerci a osservare come l’economia è un’idea anche più importante: ci sono economie concorrenziali, diverse tendenze o linee di fuga dentro e fuori un regime economico qualsivoglia. Esempi: come descrivere la famiglia? La scuola? La coppia? I disoccupati? Il mondo delle scommesse? Impossibile ridurre tutto al tornaconto di un singolo personaggio, di una singola narrazione, se non a titolo iniziale o finale. Letteratura e Storia, da questo punto di vista, si stringono la mano. Con i sentimenti è ancora più complicato: che dire di Albertine se non che sfugge a qualsiasi gerarchia discorsiva? La “teoria” nel romanzo è ciò che fa del romanzo qualcosa di interessante. Interessante e irriducibile alla “trama”, ma che semmai la attraversa come un messaggio attraverso le trincee. Dentro il romanzo c’è teoria, prima di finire in mano ai critici. Può essere qualcosa di intimo, persino di semplice, a volte, che poi rivela le sue dimensioni reali (un esempio: Ricostruzioni di Josephine Hart, ma anche romanzi meno “leggibili” come La vita: istruzioni per l’uso di Perec o i racconti “densi” di Cortàzar – gli esempi sono innumerevoli). Ogni volta, il romanziere indica la complessità contro l’ideologia dominante – prima tra tutte, la più stupida poiché lo colpisce nel suo desiderio, l’ideologia della “morte del romanzo”.

Le_Clezio2. La complessità non si lascia racchiudere in formule, anche se ne può adottare diverse: Seymour Chatman, nel suo grande libro Storia e discorso, non manca di notare come certi schemi siano importanti per narrare (era già, ovviamente, la Morfologia della fiaba di Propp), ma anche che sono sempre “aperti” ad ogni disconnessione o incidente di percorso. La struttura è un lavoro di taglia e cuci, reversibile e giocoso, non un “plot” né tanto meno una sintesi (la sintesi, semmai, è sempre a posteriori). Non è neppure l’informe allo stato puro (Le Clèzio può divinare la materia informe in Estasi e materia, per esempio, ma non si attiene a quest’idea dominante senza trasformarla, lungo il percorso, in una serie di pensieri o di scene di diversa fisionomia e intensità, sbriciolando di fatto il prologo in una serie sempre più rarefatta di pensieri filosofici, frammenti, riflessioni, etc.) Lo stato puro è già una mescolanza, questo vale anche per il personaggio. Bergsonimo letterario, di cui oggi si è persa la traccia? Magistero di Marcel Proust, chiaramente. Forse è più facile rendersene conto se si prendono in considerazione le forme “epiche”, da Balzac a Foster Wallace – quello che si chiama, qualche volta, “il romanzo corale”. Strana espressione, che indica, forse, come ci sono in giro dei romanzi che non ne vogliono sapere del mondo ma orbitano attorno a qualche piccolo Io in difficoltà?

3. La questione è quella del linguaggio. Dove c’è richiesta di “trama” (spesso questa parola si accompagna a un’altra: bestseller) e nient’altro che trama, al prezzo che ciò comporta sul piano linguistico quanto di costruzione generale, c’è una di specie rimozione. Perdita più o meno volontaria del mondo: “Non ne voglio sapere niente di tutto questo”. Ma non sembra esserci alcuna linea di fuga dalla “semplicità” (dalla violenza che questa comporta) senza un certo lavoro sulla parola. Leggere vuol dire consegnarsi non tanto ad un teatro, più o meno rassicurante, quanto ad una fabbrica di cui si conoscono male le regole. E’ la libertà specifica della letteratura, della poesia come della narrativa. Il romanzo, forse, è un terreno privilegiato perché vi incontriamo le rimozioni più violente, quella certa incapacità (sempre più diffusa?) di tener testa al reale, alle sue forme ambigue, sfuggenti. Fatica del romanzo, lavoro “concettuale”, spesso senza fili. Abissi esteriori o interiori, paesaggi senza volto di cui si può anche avere timore. Insonnia della scrittura, spesso insostenibile per il lettore “pigro”. Niente di più facile che smettere di leggere, meglio ancora non leggere affatto.

La parola non agevola il cammino, ma lo costruisce. Ci sono dinamiche che il linguaggio ordinario non può fare altro che sottintendere (l’implicazione, appunto, studiata anche da certi filosofi del linguaggio) ma che non potrà mai analizzare e neppure descrivere. Non è il suo compito, non è fatta per questo genere di cose (si veda la maestria con cui un drammaturgo come Ibsen sfruttava proprio questo aspetto della via sociale). La parola quotidiana è obbligata alla pertinenza, che può violare fino ad un certo punto ricorrendo all’umorismo, ma finisce qui. De-scrivere è giusto un’altra cosa dal parlare (parlato, sarebbe meglio dire: si è sempre parlati da qualcun altro). Farsi capire è un’esigenza della lingua parlata, in primo luogo, ma lo è anche di quella scritta dal momento che diventa la sua forma nel romanzo? Roland Barthes, come si sa, ne dubitava: “Il linguaggio che parlo dentro di me non è del mio tempo; è esposto, per natura, al sospetto ideologico; è quindi con lui che mi occorre lottare. Scrivo perché non voglio saperne delle parole che trovo: per sottrazione”. Così scrive ne Il piacere del testo (ed. Einaudi). Anche senza ricorrere all’idea del Testo, così compromessa – entro certi limiti- con l’avanguardia letteraria, è certo che scrivere implica una sospensione del giudizio e una sorta di “nevrastenia”, di epilessia dei segni. Bisogna braccare lo stereotipo, direbbe Barthes. Concludendo, il romanzo dovrebbe avere un suo linguaggio sovrano, altrimenti (tagliando corto con le categorie) è merda. Si dice che, oggi, non abbiamo più “criteri” per stabilire il valore letterario: ma il valore (oggetto, ricordiamolo, della morale) è insito nella lettura, la lettura come divenire della lingua può creare la forma e soltanto essa. Incalcolabile all’origine, certo. Nessuno insegna a scrivere, tranne la lettura. Come sul trapezio, c’è questo funambolo da evocare (figura che evoca, a sua volta, lo spettro di Genet). Leggere, in primo luogo, è già scrivere. Riscrivere, persino.

Lavagetto4. Un aspetto spesso trascurato nel dibattito sul romanzo è il suo potere “culturale”, anzi scientifico: la macchina narrativa è anche, o almeno dovrebbe essere, un laboratorio da cui partire per fare o dire o scrivere in un altro modo, acquisendo delle idee senza passare per forza da chissà quale “teoria” esterna alla forma romanzesca. Non esiste la critica, a mio modesto avviso, esistono soltanto scritture convergenti o divergenti (di segno negativo rispetto alla forma di partenza). Guerra dei linguaggi, oggi più che mai difficile ma che ha fatto la gloria di certa letteratura (a cominciare dagli Illuministi, il romanzo non ha mai smesso di fare rumore, almeno fino a quando non si è imposto il valore del Mercato ovvero la vendibilità come valore assoluto). Se ci siamo fatti fregare dalla critica è perché, a parte alcuni critici-scrittori (Barthes, Deleuze, Genette, etc.) per il resto non si capisce come rendere conto della profonda incongruenza dei linguaggi letterari. Semplicemente, il mondo ha il suo alibi perfetto per queste cose. La letteratura non passa per una coscienza “illuminata”, ormai dovrebbe essere chiaro (fallimento della critica militante, al quale oppongo volentieri Critica e clinica di Deleuze).

C’è sempre un motivo per farne a meno, del linguaggio letterario, persino nelle case editrici. Ma appena ne fai a meno piombi nella melassa dei proclami, degli statuti o delle amenità di diverso ordine che fingono di riempire il vuoto che non cessano di provocare. Se il romanzo è anche una specie di scuola, di “palestra dei valori”, lo è a patto di sovvertire l’idea stessa di competenza aziendalistica che troviamo ovunque. Da questo punto di vista, credo si possa dire che il romanzo rimane l’ultimo baluardo della Borghesia.  Sì, proprio così. Con buona pace delle avanguardie di ritorno, d’altra parte un corollario della borghesia declinante. Cambia davvero qualcosa se mettiamo Madame Edwarda di Bataille al posto di Giorgio Bassani? Con i tempi che corrono, direi di no. Non si tratta di confondere nulla, il fatto è che le elucubrazioni sul nichilismo di questo o di quello non ci interessano molto. Bassani è un eroe perché oggi si legge Fabio Volo, non so se mi spiego. Balestrini è squalificato in partenza. “Non c’è campo”, si dice tra i radioamatori.

5. L’orecchio della critica, comunque sia, ci vuole. A lato, di traverso, a margine, in qualche modo si forma. E’ la vita del lettore che diventa cosciente. Ad averne di orecchio, molta letteratura risalterebbe meglio sullo sfondo dei linguaggi. Problema annoso, se si vuole anche noioso. Per statuto la critica letteraria si è esercitata specialmente a ridosso dell’università, e anche quando si è piccata di essere “impura” lo ha fatto dopo essere passata dalle strettoie del metodo, che fosse strutturalista oppure no, finendo poi in quel grande fuoco fatuo che è la critica giornalistica, da sempre la più debole e la più venduta. I fasti della critica, comunque la vogliamo mettere, sono lontani come asteroidi. La critica è un linguaggio secondo, si dice, ma è anche vero che non ha fatto molto per diventare altro. “Che fare della critica?” è una falsa domanda, l’abbiamo detto. Ci vuole orecchio, e poi si scrive. Il paradigma resta musicale, forse, piuttosto che teoretico (il vero talento, semmai, consiste nel trasformare l’ascolto del testo in qualcosa di diverso dall’impressionismo, vale a dire dall’ingenuità). Chi scrive è sempre un altro, in fondo, perciò dov’è il problema? (A.D.)



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